“Brodo al gusto umami? Umami? Ma che nome è? L’ultima trovata di un responsabile marketing con la passione dei manga?” Questa fu la mia reazione quando una manciata di anni fa, leggendo la bella tesi della mia ex compagna di banco del liceo, mi imbattei per la prima volta nel quinto gusto, quello nuovo ed elusivo che si accompagna ai quattro che mi ricordavo di aver studiato a scuola – dolce, amaro, salato e acido.
I gusti, oltre a renderci la vita più piacevole, hanno tutti un ruolo definito nell’orientarci nella scelta di ciò che ingeriamo: il dolce e il salato sono appetitosi e ci spingono a mangiare nutrienti essenziali come i carboidrati e i sali minerali; gli acidi sono comuni in cibi fermentati e avariati – quindi potenzialmente dannosi – e amaro corrisponde a composti alcalini, molto comuni in sostanze velenose per l’uomo. Questo è il modo con cui l’evoluzione ha agito sui nostri recettori e questo, per inciso, è anche il motivo per cui “con un poco di zucchero la pillola va giù”: non per nulla le medicine, che se assunte in grandi quantità fanno più male che bene, sono tipicamente amare, e una copertura zuccherina può facilitarne l’assunzione. Ma che dire dell’umami?
Il papà del quinto gusto è un chimico giapponese vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, Kikunae Ikeda. Nonostante le difficoltà economiche in cui versava la sua famiglia, peraltro discendente da un clan di samurai, Ikeda riuscì a seguire la propria passione e nel 1889 si laureò in chimica presso l’allora Università Imperiale di Tokyo.
Dopo due anni trascorsi in Europa, prima in Germania (a studiare con il futuro Premio Nobel per la chimica Friedrich Wilhelm Ostwald) e poi a Londra (dove divenne amico dello scrittore Soseki Natsume, autore dello splendido Io sono un gatto), Ikeda tornò in patria e diventò professore presso la sua Alma Mater.
Goloso di un piatto tipico della cucina tradizionale giapponese, il dashi, da tempo il chimico si chiedeva cosa mai potesse essere quel gusto così non-dolce, non-salato, non-amaro e non-acido che gli restava in bocca dopo un piatto a base di dashi come la zuppa di miso; a un certo punto, pertanto, Ikeda decise di affrontare la questione con l’aplomb di un vero scienziato.
Come racconta la pagina a lui dedicata dalla prestigiosa università edochiana, nel 1907 Ikeda si mise al lavoro partendo dal kombu, un’alga commestibile alla base della preparazione del dashi; il kombu è una varietà di kelp, alghe marine che crescono sott’acqua in strutture simili a foreste considerate ecosistemi estremamente produttivi – oltre che esteticamente sorprendenti.
Ikeda essiccò 38 chilogrammi di kombu e li mise a bollire; dopo alcuni mesi, grazie a vari procedimenti che oggi sarebbero piuttosto rapidi ma all’epoca erano lenti e difficoltosi, riuscì a estrarre un cristallo marroncino della dimensione di un granello di riso e dall’aspetto inquietantemente simile alla sabbia. Ma nel momento in cui Ikeda lo mise in bocca, come scrisse lui stesso, ogni dubbio fu sciolto: ecco esplodere in tutta la sua potenza il sapore del dashi!
Ikeda era riuscito a isolare il glutammato monosodico, il sale di sodio dell’acido L-glutammico responsabile del gusto che, non essendo riconducibile a nessuno dei quattro già noti, il chimico decise di battezzare umami, ossia gusto delizioso.
Un attimo, fermi tutti: stiamo davvero parlando di glutammato?!?! Lo stesso glutammato che negli anni Sessanta balzò agli onori delle cronache grazie alla cosiddetta Sindrome da ristorante cinese? Ebbene sì, anche perché come spiega esaustivamente Dario Bressanini in questo articolo, a oggi non esiste nessuna prova del fatto che il vituperato glutammato faccia male alla salute. Leggendo Bressanini, tra l’altro, ho scoperto che, fra tutti i 20 amminoacidi liberi presenti nel latte materno, il più abbondante è proprio l’acido glutammico: a questo punto me la gusterei proprio una bella teoria complottista che, dopo aver bersagliato i ristoranti cinesi di mezzo mondo (Cina esclusa…), si scaglia contro l’allattamento al seno!
Torniamo ora al Giappone di inizio Novecento. All’epoca, la maggior parte della popolazione giapponese viveva di agricoltura, motivo per cui Ikeda pensò che un condimento basato sul glutammato avrebbe potuto rendere più saporita un’alimentazione basata principalmente su riso e verdure. E decise così di brevettare e commercializzare la sua scoperta. Nel mese di marzo del 1909, appena due anni dopo l’inizio delle ricerche, Ikeda riusì a isolare cristalli puri all’85%; dopo essere stati ridotti in polvere, senza dimenticare l’aggiunta di un po’ di sale, questi cristalli cominciarono a essere venduti come condimento dalla società Ajinomoto (letteralmente, “all’origine del sapore”), da lui fondata insieme a Saburosuke Sazuki II.
Il condimento a base di glutammato inventato da Ikeda ebbe un grande successo e portò sulle papille gustative di europei e americani uno dei sapori più distintivi della cucina orientale – con annessi e connessi, come abbiamo visto sopra.
Eppure, così come lo zucchero non è l’unico responsabile del gusto dolce, il sale di sodio dell’acido L-glutammico può essere aiutato da altre sostanze nel farci percepire il gusto delizioso. Mi riferisco alla cosiddetta sinergia dell’umami. Per non dilungarci oltre, ne parleremo nel prossimo articolo, svelando i motivi per cui il sushi, senza salsa di soya, ci piace un po’ meno, e anche perché la pizza… oddio, veramente c’è bisogno di spiegare perché la pizza è così buona?
Copertina: foto Meat soup © Fabrizio Morroia via Flickr
Una versione un po’ diversa di questo articolo è comparsa sul numero di settembre 2016 della rivista Scuola e didattica, con cui collaboro dal 2012.