Un titolo di poche pretese, senza dubbio; vedo già i sorrisini e le gomitate serpeggiare tra i membri del mio pubblico di lettori… [Sì: ho un’immaginazione fervida]. Eppure, cercare di definire cos’è la vita non è appannaggio degli arrovellamenti filosofico-esistenziali tipici dell’adolescenza; si tratta di una questione del tutto legittima e a cui è addirittura auspicabile trovare una risposta condivisa.
Una definizione di che cosa è “vivo” e cosa non lo è, infatti, acquista un ruolo fondamentale nell’ottica della ricerca di condizioni favorevoli alla vita in tutti gli esopianeti che si stanno scoprendo in questi anni – parliamo qui di astrobiologia e, volendo, anche dei presupposti del famoso progetto SETI.
E che dire poi di tutte le implicazioni morali? Questioni come l’aborto, la fecondazione in vitro o l’eutanasia sono legate alle risposte date a questa domanda, e la scienza ha il dovere di intervenire nel dibattito al meglio delle proprie conoscenze.
Però qui sto divagando: ognuna di queste è un’altra storia e, come Michael Ende ne La storia infinita, dovrò raccontarla un’altra volta.
Dicevamo: la vita. Guardandoci attorno, sembra ovvio che ognuno di noi sia in grado di distinguere ciò che è vivo, come un gatto e le piante sul balcone [che dovrei annaffiare, ora che ci penso] da ciò che non lo è, tipo un paio di occhiali oppure il computer su cui sto scrivendo (anche se quando si tratta del computer di mia madre nutro dubbi del tutto legittimi).
Il fisico Erwin Schrödinger, nel suo affascinante saggio Che cos’è la vita (scritto nel 1943, dieci anni prima della scoperta del DNA), avanzò la seguente ipotesi [copio abbastanza spudoratamente dalla quarta di copertina dell’edizione italiana]:
la molecola del gene deve essere un cristallo aperiodico, formato da una sequenza di elementi isomerici che costituiscono il codice ereditario. Tale codice contiene il piano di sviluppo dell’organismo.
Se proviamo a esaminare alcune delle caratteristiche che accomunano gli organismi viventi, salta sicuramente all’occhio una proprietà tipica anche del pensiero di Schrödinger, ossia la complessità: il mio gatto ha comportamenti complessi (tipicamente imprevedibili), gli occhiali no.
Un’altra caratteristica importante è il fatto di crescere: il computer tende a restare sempre della stessa forma e dimensione (e modello), mentre gatto e piante nascono piccoli e diventano progressivamente più grandi.
Ho appena usato il verbo nascere, e a proposito: un organismo vivente è in grado di replicarsi, o riprodursi, cosa che purtroppo né il computer né gli occhiali hanno ancora imparato a fare – altrimenti avrei risolto da tempo il problema dei regali di compleanno ad amici e parenti.
Gli organismi viventi sono poi in grado di mangiare o, più precisamente, di metabolizzare: si assicurano un approvvigionamento di energia per poter crescere, replicarsi e fare un sacco di altre cose che, tipicamente, gli oggetti inanimati non fanno.
La vita deve anche avere un meccanismo per conservare l’informazione; nel nostro caso, si tratta della doppia elica del DNA, indispensabile per programmare il funzionamento delle cellule così come per garantirne la riproduzione (eccolo qui, il piano di sviluppo dell’organismo evocato da Schrödinger).
Sembra infine che la vita sia intrinsecamente soggetta all’evoluzione per selezione naturale, che le consente di affrontare i cambiamenti ambientali senza esserne sopraffatta.
Quest’ultima caratteristica è particolarmente promettente, tanto da aver ispirato definizioni come quella dello scienziato NASA Gerald Joyce:
La vita è un sistema chimico che si autosostiene ed è soggetto all’evoluzione darwiniana.
Bisogna però fare molta attenzione, perché tutte queste caratteristiche, almeno se considerate singolarmente, appartengono anche al mondo non biologico. I cristalli possono crescere, gli incendi producono reazioni chimiche molto simili alle metaboliche, i programmi informatici possono evolvere autonomamente nel tempo e possono addirittura essere replicati da un computer all’altro…
E allo stesso tempo, ci sono organismi come i virus che, per riprodursi, hanno bisogno di appoggiarsi a una cellula ospite: è un motivo sufficiente per considerarli non viventi? Secondo alcuni, lo è.
E’ anche possibile che non esistano caratteristiche chimiche o fisiche della vita tali da poter essere utilizzate per definirla. La vita potrebbe non essere un “genere naturale” come l’oro o l’acqua, di cui esistono proprietà “a prescindere” [la sto facendo molto semplice, ovviamente], ma essere più simile a – pardon! – una sedia. Una possibile definizione di una sedia è quella di un oggetto su cui ci si siede; ma se qualcuno si siede su un tavolo cosa succede? Il tavolo diventa una sedia? E che dire poi di un uomo calvo? Quanti capelli deve aver perso, per essere così promosso (o retrocesso) dalla condizione di stempiato? Proprio tutti? Oppure il 70% è sufficiente? E nel caso del signore nella foto (forse calvo, forse no), chiaramente addormentato, la sedia è forse diventata un letto?
A ben guardare, il linguaggio è molto vago, e dopotutto nella quotidianità [mi perdonino i filosofi del linguaggio!] non è poi così importante la definizione di per sé di cosa è una sedia o di chi può considerarsi soltanto stempiato anziché calvo: ciò che conta è che sia consistente e condivisa.
E forse lo stesso vale anche per la vita. Forse “vita” non è altro che una parola che definisce parte della chimica e della fisica che descrivono le nostre idee su cosa è vivo e cosa non lo è, così come poteva essere la parola “acqua” prima dell’esistenza di una teoria molecolare che la trasformasse nell’equivalente in lingua italiana di H2O.
Dovremmo probabilmente accettare il fatto che, in assenza di una teoria sulla natura dei sistemi viventi, è inevitabile che tutti i tentativi di definire cos’è la vita continueranno a imbattersi in controversie. Ma come abbiamo scritto all’inizio, la posta in gioco è molto alta, e vale sicuramente la pena continuare a rifletterci su.
Una versione un po’ diversa di questo articolo è comparsa sul numero di febbraio 2016 della rivista Scuola e didattica, con cui collaboro dal 2012.