Che cosa sono gli organoidi ve l’ho già raccontato a marzo 2021: si tratta di aggregati di cellule che assumono spontaneamente una configurazione in tre dimensioni e possono organizzarsi e distribuirsi ordinatamente, finendo per assomigliare a organi in miniatura. Una cosa a cui allora non avevo pensato, però, è che cosa succede quando questi organoidi sono costruiti per imitare una cosa ben specifica: un embrione, che ha la potenzialità di svilupparsi non in quello o quell’altro organo, ma in una persona fatta e finita. Sono davvero finiti i tempi delle api e dei fiori?
Questi modelli embrionali umani, negli ultimi cinque o sei anni, sono stati realizzati in sempre più laboratori, arrivando a imitare le prime, rudimentali fasi dello sviluppo di quelli che in un embrione vero e proprio diventeranno il cervello, la spina dorsale, il cuore. Alcuni di questi modelli imitano invece i tessuti di supporto, per intenderci quelli che servono a “fare” di un insieme di organi un essere umano vero e proprio.
Che cosa succederebbe se qualcuno decidesse di mettere insieme singoli organoidi e tessuti di sostegno? Riusciremmo davvero a “coltivare” bambini in laboratorio? Per il momento sicuramente no, ma potrebbe essere soltanto questione di tempo. Come racconta questo articolo di Kendall Powell recentemente comparso su Nature, le spinte a proseguire lungo questa linea di ricerca sono numerose e intense, e alcune regolamentazioni stanno cambiando, cedendo a una maggiore permissività e dando sempre più tempo, agli scienziati, per lasciare che questi embrioni da laboratorio si sviluppino ulteriormente.
Giusto? Sbagliato? Le questioni etiche che avvolgono queste ricerche sono tantissime, estremamente ingarbugliate e ci toccano tutti molto da vicino. Se il precursore di un cuore cominciasse a battere, o il precursore di un neurone a scaricare? Dove situare il limite tra ciò che è uno strumento di ricerca – con ricadute importantissime per la salute e per la fertilità – e ciò che potrebbe essere del tutto assimilabile a un individuo?
Se l’argomento vi appassiona, vi consiglio la (ri)lettura di quel capolavoro di Kazuo Ishiguro che è Non lasciarmi: una utopia al rovescio in cui l’autore premio Nobel per la letteratura si e ci interroga su che cosa significa l’altruismo e su quali possono (devono?) essere i confini necessari da porre alle biotecnologie – o, meglio, agli uomini e alle donne che queste tecnologie biologiche le concepiscono e, dopo duri anni di ricerca, arrivano al punto di poterle trasformare in realtà.
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