Ho capito cosa dovevo fare quando è successo per la terza volta: il telefono squilla, il numero è sconosciuto ma rispondo comunque perché non si sa mai, mi si rivolge una voce squillante che mi chiede se voglio comprare dei Bitcoin. Sì, proprio così: “Vuole comprare dei Bitcoin? E’ un ottimo investimento”. Essendo convinta che, se qualcuno pagava una persona perché trascorresse le sue giornate in un call center a procacciare clienti, l’ottimo investimento lo fosse per il qualcuno in questione, e non per la sottoscritta, ho comunque iniziato a volerne sapere qualcosa in più. Ed è così che, cercando di capire qualcosa di “vero” sui Bitcoin fra decine di articoli più o meno tecnici e più o meno confusi, ho incontrato la blockchain.
E’ vero che ormai da alcuni anni i Bitcoin sono, se non sulla bocca di tutti, entrati a far parte di molte conversazioni che amo definire da bar. Qualcuno, più esperto (o supposto tale), si spinge fino all’Ether, ma c’è una cosa quasi mai menzionata da nessuno: la struttura che rende possibile l’esistenza di queste criptovalute. È una tecnologia destinata a essere ben più rivoluzionaria delle valute stesse. Si tratta della blockchain, che ci consente di risolvere un problema che si pone fin dagli albori di internet e che negli ultimi anni è diventato sempre più imponente e invasivo della nostra privacy: come possiamo fidarci di ciò che succede on-line?
Immaginate la seguente situazione: dovete convivere per qualche tempo insieme a degli sconosciuti, condividendo alcune spese (affitto, luce, acqua, cibo…) e regolando ciclicamente i conti fra voi. Una soluzione consiste in un libro, che possiamo chiamare registro, su cui annotare entrate e uscite di ciascun inquilino verso l’esterno (Alice paga 100 per il gas) e verso l’interno (Bernardo deve 30 ad Alice ed è in credito di 20 rispetto a Carlo). È però preferibile che ciascuno di voi abbia un registro personale con elencati tutti i movimenti di denaro e che di tanto in tanto vi incontriate tutti insieme per confrontare i dati e regolare i conti. Il motivo è il seguente: ogni volta in cui si tratta di aggiornarsi sulle nuove entrate e uscite o su eventuali correzioni ai dati lo si fa in gruppo, eventualmente discutendo finché non si raggiunge un accordo. Se, però, qualcuno cerca di imbrogliare aggiungendo o togliendo uno zero qua e là, per smascherarlo è sufficiente controllare ciò che è scritto su tutti gli altri libri: se una discrepanza compare soltanto in uno dei registri, mentre tutti gli altri concordano su una versione differente e condivisa, il suo possessore è sicuramente un bugiardo.
Il principio della blockchain è esattamente lo stesso: si tratta di un registro elettronico e decentralizzato, gestito da un network di computer sparsi anche ai quattro angoli del globo. Tecnicamente si parla di database distribuito, costituito da “blocchi” di informazioni, in cui la sincronizzazione avviene grazie a un meccanismo peer to peer. A qualcuno di voi il termine potrebbe richiamare alla mente il muletto usato agli albori di internet (confesso di essere stata una early adopter, tra l’altro piuttosto compulsiva): sì, siete nel giusto. L’idea è che nessuna macchina ha il controllo sul sistema, proprio come succedeva nel caso degli inquilini: ogni computer del network accetta modifiche ai dati contenuti nei blocchi soltanto dopo essersi assicurato che esse hanno avuto luogo rispettando certe regole predeterminate e condivise. Viene così meno la necessità della presenza di una terza parte fidata che agisce da garante, come una banca o un notaio: non soltanto si abbattono i costi di intermediazione, ma tutto il processo è molto più democratico.
Per di più, questo database è immutabile, nel senso che ogni blocco contiene la storia di tutti quelli venuti prima di lui; di conseguenza, ogni volta in cui un’informazione nuova è stata inserita, oppure una preesistente modificata, è metaforicamente scolpita nella pietra in modo indelebile.
Un breve inciso. Le prime volte che, nei mesi passati, mi capitava di leggere articoli sulle criptovalute, pensavo che la blockchain fosse in realtà La Blockchain: che ne esistesse soltanto una, un po’ come Il World Wide Web. Ho poi capito – e lo specifico perché, sai mai, magari anche a qualcuno di voi può venire lo stesso dubbio (magari no, ma tra i buoni propositi per il 2019 c’è “trasformare in punti di forza i miei punti di debolezza”, quindi ci provo) – che, come ho già scritto, si tratta di una tecnologia; una tecnologia che, tra l’altro, prescinde dal denaro elettronico e può essere sfruttata in tantissimi ambiti diversi.
Faccio alcuni esempi tra quelli che hanno realizzato in giro per il mondo, tanto per darvi un’idea della sua versatilità. La blockchain può essere usata come infrastruttura su cui appoggiare il voto a distanza, impedendo di votare due volte ed evitando altri tipi di frode elettorale; i governi potrebbero creare registri permanenti e non modificabili, riuscendo a impedire vari tipi di truffa al sistema sanitario e pensionistico. Pensate infine alle applicazioni nelle varie filiere di approvvigionamento, per esempio per quanto riguarda il tracciamento dell’origine degli alimenti e delle materie prime; un alto ambito in cui si è riscontrato molto interesse è quello del mercato dell’arte, anche se dal punto di vista sociale il più interessante è probabilmente quello dei cosiddetti diamanti insanguinati (la cui vendita serve a finanziare attività di guerriglia) che, grazie alla tecnologia della blockchain, potrebbero finalmente essere debellati una volta per tutte.
Foto di copertina di M W via Pixabay.