Le piante sono esseri viventi? La risposta è: assolutamente sì – e che diamine! Ma allora, soprattutto se pensiamo a quei casi un po’ strani, per i profani, come potrebbero essere i coralli, qual è la principale differenza tra piante e animali? Si tratta di una domanda solo apparentemente banale, che nasconde invece secoli di storia in cui è sempre stato difficile fare veramente chiarezza su questo problema.
E’ infatti opinione comune che le piante vivano – ossia crescano, si nutrano e si riproducano – ma non siano dotate di movimento: ed è proprio questa assenza di movimento che, in generale, è percepita come il fattore di separazione fra il mondo animale e il mondo vegetale. Ma le cose stanno veramente così?
La risposta è no: le piante, in realtà, sono anch’esse dotate di movimento; si muovono in misura minore rispetto alla maggior parte degli animali, ma si tratta di una differenza più che altro quantitativa, e non tanto qualitativa.
Il pensiero che, fra animali e piante, esista una dicotomia basata sulla reciproca capacità o incapacità di muoversi risale, storicamente, alle idee di una delle fonti più autorevoli di tutta la storia umana: niente meno che Aristotele, il quale distinse i viventi dai non viventi proprio grazie alla rispettiva capacità di muoversi. L’influenza del filosofo greco in botanica è stata ancora più tenace rispetto ad altri ambiti scientifici, ed è durata ancora più a lungo.
Questa sorta di svalutazione del mondo vegetale, tra l’altro, non è appannaggio esclusivo della cultura occidentale; basti pensare per esempio alla tradizione musulmana, che ammette la rappresentazione figurata delle piante ma non quella di animali o esseri umani – affermando implicitamente che le piante non sono creature di Dio, o comunque non lo sono allo stesso livello degli animali.
Ancora nella seconda metà del XVI secolo, biologi e botanici continuavano a definire “anomalie” o “variazioni aberranti” le piante che mostravano movimenti rapidi – il termine zoospore, infatti, sottolineerebbe proprio una più stretta parentela con il regno animale (zoon, in greco, significa proprio animale).
Il ruolo delle piante nell’ecosistema terrestre cominciò a venir preso seriamente in considerazione soltanto nel Seicento. Sul finire del diciottesimo secolo, lo scienziato olandese Jan Ingenhousz – basandosi a sua volta su esperimenti condotti dal chimico inglese Joseph Priestley – confermò che le piante respirano, restituendo all’aria una sostanza necessaria alla vita degli animali (l’ossigeno). Ingenhousz scoprì inoltre che, perché avvenga questo processo, è necessario l’intervento della luce; gettò così le basi per la definizione del processo della fotosintesi, e fu sempre lui ad accorgersi che le parti della pianta coinvolte in questo processo sono soltanto quelle verdi.
Una vera e propria rivalutazione del mondo vegetale non ebbe inizio però che verso la fine dell’Ottocento, grazie a una delle ultime pubblicazioni di Charles Darwin: Il potere di movimento nelle piante, in cui il grande scienziato notò che per quanto le reazioni delle piante siano spesso lente, in molti casi la sensibilità vegetale è sorprendentemente acuta e le risposte altrettanto sorprendentemente rapide (si pensi ad esempio alla Mimosa pudica). Darwin fu affascinato da queste capacità inaspettate, e riuscì per primo a chiarire che i movimenti, per quanto predominanti in una varietà di piante specializzate, sono universali.
Più o meno nello stesso periodo, il naturalista Jean-Henri Fabre – soprannominato da Victor Hugo “l’Omero degli insetti” per i suoi enciclopedici lavori in campo entomologico – propose un nuovo modo di vedere il rapporto fra animali e piante, descrivendo queste ultime come “sorelle degli animali” (La pianta. Lezioni sulla botanica). Pochi anni dopo, lo scienziato indiano sir Jagadis Chandra Bose, si spinse ancora oltre, affermando la sostanziale identità fra piante e animali: riuscì a dimostrare che le piante utilizzano segnali elettrici per la comunicazione al proprio interno e avanzò l’ipotesi che le piante dovessero venir considerate esseri intelligenti, capaci di apprendere dall’esperienza e di modificare il proprio comportamento di conseguenza.
Gli sviluppi degli ultimi anni hanno portato alla nascita e allo sviluppo di vero e proprio settore di ricerca: la neurobiologia vegetale, che studia il modo in cui le piante si procurano informazioni dall’ambiente che le circonda ed elaborano questi dati in modo da sviluppare un comportamento coerente.
Oggi, pertanto, non ci si chiede più se le piante siano oppure no in grado di compiere movimenti; la questione sollevata da numerosi esperimenti compiuti negli ultimi anni è piuttosto la seguente: le piante sembrerebbero infatti capaci di comunicare tra loro, inviando ad esempio messaggi di pericolo in presenza di attacchi esterni.
La comunità scientifica non ha ancora accettato questi risultati all’unanimità (principalmente perché si tratta di esperimenti condotti in laboratorio, non sempre replicabili adeguatamente in natura), ma se questa comunicazione avesse veramente luogo resterebbe da capire come riescano le piante a metterla in atto, e soprattutto perché.
Da un lato, una migliore comprensione dei dettagli delle forme di comunicazione, infatti, potrebbe portare a interessanti e utili applicazioni in ambito agricolo: se le piante sono esseri viventi in grado di inviare segnali, potrebbe per esempio diventare possibile (nonché eticamente consigliato) rinunciare a tutta una serie di pesticidi e proteggere i raccolti con recinzioni vegetali in grado di respingere insetti e altri elementi nocivi.
Al di là delle applicazioni pratiche, tuttavia, l’eventualità che le piante condividano informazioni solleva d’altro canto questioni interessanti per una prospettiva evoluzionistica: perché organismi che di fatto competono per la sopravvivenza potrebbero ritenere utile la messa in rete di conoscenze condivise? Un conto, infatti, è inviare messaggi agli insetti perché, allettati dalle forme o dai profumi dei fiori, si occupino di propagare la specie, ma il discorso si fa molto diverso quando la comunicazione non è rivolta all’esterno ma all’interno del mondo vegetale. Quindi tra concorrenti.
E’ anche possibile, secondo alcuni studiosi, che non si tratti di una comunicazione vera e propria, quanto piuttosto di quel che l’ecologo Martin Heil ha definito un soliloquio: anziché usare il sistema vascolare per inviare segnali lungo distanze di diversi metri, le piante potrebbero rilasciare sostanze chimiche volatili per comunicare più rapidamente con altre parti di se stesse; in questo caso, le piante vicine potrebbero semplicemente trovarsi a “intercettare” questi segnali e ad agire di conseguenza.
Ad ogni modo, con le parole dell’etologo Ian Baldwin, probabilmente dovremmo iniziare dal fatto di smettere di antropomorfizzare le piante – errore che compiamo già fin troppo spesso nei confronti degli animali – e “cominciare a fitomorfizzare un po’ noi stessi: immaginare cosa voglia dire essere una pianta è l’unico modo di comprendere come e perché le piante comunicano, svelando così il mistero che avvolge la loro vita segreta”.
2 Commenti
Sono rimasto affascinato dal pensiero del professor Stefano Mancuso, direttore del laboratorio Internazionale di Neurobiologia vegetale, leggendo due suoi libri pubblicati da Laterza: «L incredibile viaggio delle piante» e «La nazione delle piante» che contiene una singolare ipotesi di Costituzione immaginata sui «valori» del mondo vegetale.
Hai ragione, ho letto anche io L’incredibile viaggio delle piante e il suo primo libro, Verde brillante. Appena trovo il tempo aggiorno il post, all’epoca in cui l’ho scritto avevo seguito una sua conferenza al Festival della Scienza di Genova e letto un articolo, i libri non esistevano ancora! Grazie per la segnalazione 🙂