Qualche anno fa, il filosofo e psicologo Nicholas Humphrey scrisse – e io ebbi il piacere di tradurre – un saggio intitolato come il mio colore preferito: Rosso. Si trattava di uno studio sulla coscienza e la percezione, e iniziava con una domanda apparentemente banale: quando guardiamo qualcosa di rosso, attraverso quale meccanismo psicologico, e in che modo, viviamo ed elaboriamo l’esperienza di quel particolare colore? E soprattutto, è possibile affermare che la mia esperienza del rosso è, oppure non è, uguale alla vostra?
In questo articolo vorrei fare un passo indietro rispetto al libro (la cui lettura è peraltro godibilissima, parola di traduttrice) e iniziare a mia volta con una domanda altrettanto banale, il mio secondo colore preferito e un’immagine particolarmente piacevole. Nel momento in cui, perdendo lo sguardo nelle acque cristalline di un mare tropicale, per definirne il colore uso la parola “verde”, come posso distinguere il momento in cui il verde, da verde-verde, andando verso l’orizzonte diventa prima verde acqua e poi azzurro e, da azzurro, passa finalmente al blu?
Tale questione è in realtà piuttosto complessa e chiama in causa vari aspetti di fisica delle onde e di psicologia percettiva; il linguaggio dei colori, tuttavia, da solo rivela sul nostro modo di concettualizzare il mondo molte più cose di quanto saremmo portati a pensare.
Secondo Plinio, nella Grecia classica si usavano soltanto quattro colori: bianco, nero, rosso e giallo; questa sarebbe stata la tavolozza di Apelle, il più famoso pittore della classicità. Non possiamo controllare questa affermazione perché tutte le opere di Apelle sono andate perdute, ma sappiamo che i Greci possedevano una gamma di pigmenti molto più ampia. Le ragioni per cui Plinio avrebbe ridotto a quattro i colori dei pittori potrebbero essere filosofiche (quattro come i quattro elementi, aria acqua terra fuoco); ma è più probabile che la varietà della tavolozza della cultura classica sia dovuta piuttosto a una questione prettamente linguistica.
Come può essere possibile confondere il rosso con il verde? Da una prospettiva moderna sembra assurdo, perché fin dai tempi di Isaac Newton anche quelli, fra noi, più allergici alla fisica, hanno ben chiari l’esperimento del prisma e la figura dell’arcobaleno, con le sue sette bande distinte. E’ bene ricordare, tuttavia, che almeno fino al XV secolo il termine medievale “sinopia” poteva riferirsi sia a un rosso sia a un verde; che il latino “cœruleum”, per contro, contiene un’ambiguità simile tra giallo e azzurro, e in generale che in latino non esistevano parole per indicare il marrone o il grigio – ma questo non significa certo che gli artisti romani non conoscessero o non utilizzassero pigmenti bruni! A proposito di bruni: ancora oggi, nel francese moderno, il termine brun non è perfettamente equivalente all’inglese brown, ma in alcuni casi può essere sostituito da marron o anche da beige. Per motivi tutt’altro che chiari, come si legge nello splendido La lingua colora il mondo, di Guy Deutscher, la distinzione fra azzurro e verde è assente in moltissime lingue, tra cui il vietnamita e il coreano; la parola gallese “glas” si riferisce al colore dei laghi di montagna e comprende una gamma che va da un verde molto scuro al blu; il giapponese “awo” può indicare il verde, il blu, o anche una generica tonalità scura, a seconda del contesto. L’elenco va avanti a lungo, e ha conseguenze sorprendenti: leggete il libro!
Per quanto siano stati fatti numerosi tentativi di determinarli, attualmente si ritiene che non esistano concetti dei colori fondamentali, primari, indipendenti dalla cultura. I quattro colori di Plinio, infatti, non erano semplicemente bianco, nero e così via, ma “bianco di Milo” e “rosso di Sinope”: corrispondevano a pigmenti ben specifici. In assenza di una base teorica sicura per la classificazione, in conclusione, per parlare di colori è necessario riferirsi alla sostanza fisica che li fornisce. Il linguaggio dei colori, pertanto, può diventare “scientifico” soltanto nel momento in cui ha una solida base materiale – e di questo parla magistralmente Philip Ball nel suo splendido Colore. Una biografia. Con Philip Ball, qui, i complimenti non si sprecano né mai si sprecheranno, sapEvatelo.
Tutto questo, probabilmente, non aiuta a rispondere alla domanda di Nicholas Humphrey sul ruolo della coscienza nella percezione, e, come abbiamo visto, neppure a rendere universale la linea oltre il quale, nel mare, il verde acqua diventa azzurro e l’azzurro diventa blu; ma, se non altro, forse qualche passo in avanti è comunque stato fatto rispetto all’omerico – quanto enigmatico – mare dal color del vino che tanto mi lasciava perplessa al liceo…