Le mappe, si sa, per quanto in molti casi possano risultare indigeste sono estremamente utili per orientarsi. Vero è che negli ultimi anni, da quando dire che gli smartphone sono un oggetto “diffuso” è diventato un eufemismo, l’abitudine di utilizzare app come Google Maps ha preso piede, a volte fin troppo. Come a Venezia, dove è utilissima anche a chi la città un po’ la conosce, figurarsi a chi vi si reca per la prima e probabilmente unica volta; mi è capitato più volte di vedere turisti talmente presi dall’osservazione dei percorsi tracciati sul cellulare da non prestare attenzione alcuna alle meraviglie che si innalzavano loro intorno e prestarne ancor meno alle inevitabili asperità presenti sul terreno, con conseguenze che potete facilmente immaginare.
E comunque. Dopo tutti questi mesi di silenzio non era di questo che volevo parlare, bensì di cos’è, come si disegna e a cosa serve una mappa del cervello. Un post non sarà sufficiente, e forse nemmeno due. Ma da qualche parte bisogna pur incominciare, e questa volta – tanto per cambiare – partiremo con un po’ di storia.
La cartografia cerebrale ancora oggi più utilizzata ha un’età veneranda: era infatti il 1909 quando l’anatomista tedesco Korbinian Brodmann usò il metodo di colorazione istologica di Franz Nissl per creare una mappa del cervello (più precisamente, della corteccia cerebrale) che, con la sua divisione in 52 aree funzionali, ha costituito il punto di riferimento di tutti i più importanti tentativi di mappatura successivi.
La colorazione secondo il metodo di Nissl prevede l’uso di coloranti basici (blu di toluidina, blu di tionina o cresil violetto) e mette in evidenza tutte quelle parti che contengono strutture basofile, colorandole… be’, ovvio: di blu.
Prima di colorare, ça va sans dire, è necessario sezionare; Brodmann lavorò con qualche decina di cervelli di soggetti umani (e non), ovviamente post mortem; in barba all’idea che è necessario che un campione abbia una dimensione minima per poter inferire alcunché, l’anatomista disegnò la sua mappa del cervello basandosi su un’ipotesi senza dubbio molto forte: aree morfologicamente uniformi hanno funzioni simili. Nel caso del linguaggio, ad esempio, questa ipotesi era in linea con l’idea che le aree cerebrali coinvolte fossero le cosiddette aree di Broca e Wernicke (rispettivamente le aree 22 e 44 della mappa di Brodmann), corrispondenti alla circonvoluzione frontale inferiore e alla circonvoluzione temporale superiore.
Mandiamo ora avanti veloce; in oltre settant’anni, infatti, come ho accennato non sono stati fatti grandi passi avanti in quest’ambito e la mappa del cervello disegnata da Brodmann continua ad andare per la maggiore. Negli anni ottanta, tuttavia, nascono tecniche di indagine che, come scrivono sull’Enciclopedia della Treccani, “permettono la visualizzazione in tempo reale della struttura, del funzionamento e anche delle relative misure biochimiche e molecolari” di cervelli vivi e vegeti, nel pieno dell’azione. Fra tutte queste tecniche, l’imaging a risonanza magnetica ha avuto un successo particolare, con grande gioia dei produttori di mega magneti, se si considera che si appoggia a un macchinario che produce un campo magnetico pari a circa 50.000 volte quello terrestre.
L’idea alla base del funzionamento di questo tipo di neuroimaging è la seguente. Quando una zona del cervello è sollecitata per svolgere un qualsiasi compito, come alzare una mano, fare una scelta tra due o più opzioni o pronunciare una parola, ha bisogno di più ossigeno. Riceve così un flusso di sangue più intenso delle altre aree, cosa che causa un cambiamento temporaneo dell’equilibrio tra l’emoglobina e la desossiemoglobina (l’emoglobina che non ha ancora legato a sé l’ossigeno). Questo cambiamento modifica il campo magnetico generato dallo strumento di misura, consentendo ai ricercatori di identificare con notevole precisione, e soprattutto in tempo reale, le zone del cervello che si attivano durante lo svolgimento del compito in questione.
Grazie a questa e ad altre tecniche si è scoperto che, con buona pace di Brodmann, senza contare Broca e Wernicke, le regioni del cervello associate al linguaggio sono in realtà molte più due: si tratta delle aree di Brodmann 6, 13, 20, 37, 38, 39, 40 e no, non sono ancora finite, mancano la 44, la 45, la 46, e la 47. Una panoplia che dimostra che, contrariamente a quanto pensava Brodmann, aree morfologicamente diverse possono agire in concerto al fine di consentirci di fare nostra quella capacità croce-e-deliziosa che è il linguaggio. Lo stesso vale ovviamente per le altre funzioni cognitive.
Questo e altri risultati ottenuti negli ultimi anni hanno evidenziato la necessità di “modernizzare” il lavoro di Brodmann: c’era bisogno di una nuova mappa del cervello, in linea con le conoscenze contemporanee, grazie alla quale delineare al meglio delle nostre possibilità il funzionamento del nostro organo più misterioso (e più affascinante, almeno per quanto mi riguarda) con il duplice scopo di soddisfare la nostra innata curiosità di esseri umani e, forse cosa ancora più importante, migliorare la nostra comprensione di malattie e disfunzioni che lo possono colpire.
La sfida è stata raccolta: proprio in questo momento, nel mondo, vari ricercatori sono al lavoro per cercare di mappare il nostro cervello nel modo più preciso e più utile possibile. Ma onde evitare di scrivere un’enciclopedia anziché un semplice post, ve ne parlerò la prossima volta 🙂