Confesso che il nome di mio figlio è stato deciso in auto, a pochi isolati dal pronto soccorso, dopo che mi si erano rotte le acque (ma il travaglio non era ancora iniziato, quindi nonostante fossero le tre di notte ero ragionevolmente lucida). Ne avevamo in ballo tre: il primo piaceva di più a me, il secondo piaceva di più a mio marito, e il terzo è quello per cui abbiamo optato – e di cui siamo, a quasi cinque anni di distanza, piuttosto felici.
Sono sicura che altre coppie si decidano a scegliere il nome ben prima di noi, altre ben dopo, ma sta di fatto che tutti noi, dotati o meno di figli, abbiamo avuto modo di notare come, quando si parla di nomi propri, ci siano delle vere e proprie mode che si diffondono e si ritraggono come ondate. Per esempio, conosco decine di Andrea e di Luca tra i miei coetanei, ma praticamente nessuno tra i bambini nati negli ultimi dieci anni; viceversa, nella piccola scuola materna che frequenta mio figlio ci sono almeno tre Elia, nome che nella mia infanzia era riservato ai drammoni in TV ispirati alle storie bibliche.
La questione ha destato l’interesse di alcuni ricercatori in scienze sociali, che andando alla ricerca di risposte hanno provato ad appoggiarsi a una branca della matematica nota come teoria dei giochi e, in particolare, al concetto di equilibrio; qui si tratta, in particolare, dell’equilibrio che rappresenta il desiderio di conformarsi alle scelte degli altri e di quello legato alla ricerca di originalità.
Sembrerebbe trattarsi di due spinte contrapposte e contrastanti, ma la matematica ci insegna che, combinate insieme, portano comunque al raggiungimento di un equilibrio complessivo che tiene in conto entrambi i desideri. Ma la storia non finisce qui, dal momento che sarete tutti d’accordo sul fatto che, nel mondo, non vediamo equilibrio: fino a prova contraria, non esiste il nome perfetto, e nemmeno una rosa ristretta di nomi perfetti che vengono affibbiati d’emblée a ogni nuovo nato. E allora? Che cosa succede davvero? Perché Cloe oggi va bene e domani non più?
Come racconta questo divertente articolo uscito su Discovery Magazine a firma di Gabe Allen, è fondamentale, ancora una volta, il ruolo dei network – intesi in questo caso come reti sociali “fisiche”, ma non soltanto. Nello scegliere il nome di un bambino, in parole (molto) povere, i genitori vogliono differenziarlo (e differenziarsi loro stessi) dai pari, ma senza allontanarsi troppo dal consenso del proprio gruppo di riferimento, che nel corso del tempo può variare anche in modo piuttosto sostanziale.
Ecco che così nascono delle “bolle” di consenso e dissenso che si spostano nel tempo e nello spazio seguendo andamenti tutto sommato abbastanza prevedibili.
Questa dinamica tra l’altro caratterizzerebbe tantissimi fenomeni apparentemente molto diversi tra loro, che dallo scegliere il nome di un nascituro si diffondono ad ambiti sociali anche su scala internazionale, come ben illustra la rapida diffusione di movimenti come #metoo o Black Lives Matter.
Immagine di copertina di Howard Bouchevereau via Unsplash