Il progetto Pink and Blue dell’artista coreana Jeong Mee Yoon, iniziato nel 2005 e proseguito per diversi anni, esplora il rapporto tra i colori degli oggetti che i bambini possiedono e i loro gusti. Il tutto combinato all’influenza di un fattore aggiuntivo, ossia le inclinazioni e la capacità critica dei loro genitori.
L’artista non aveva potuto fare a meno di notare che la sua figlia minore, che all’epoca aveva cinque anni, nutriva per il rosa una tale predilezione da voler indossare soltanto abiti di quel colore; la medesima monocromaticità era riservata anche ai giocattoli e a tutti gli altri oggetti che facevano parte della sua vita, dallo spazzolino da denti al guinzaglio del cane. E una volta postasi il problema, dovette prendere atto che il figlio maggiore, di undici anni, pur non avendo una propensione particolare per l’azzurro, possedeva quasi soltanto vestiti e accessori di varie sfumature di blu.
Questione di gusti o, piuttosto, questione di consumismo, di leggi del mercato e di capitalismo globalizzato?
Difficile pensare a due colori più connotati del rosa e dell’azzurro. Eppure, fino a non molto tempo fa, il rosa era un colore associato alla mascolinità, come dimostra un articolo comparso nel 1914 sul quotidiano americano The Sunday Sentinel, in cui si invitava le madri a:
usare, per i vestitini dei più piccoli, il rosa per i bambini e il blu per le bambine, se si vuole seguire la convenzione.
All’epoca, infatti, ci si appoggiava all’idea che il rosa, essendo “imparentato” con il rosso, rappresentasse meglio concetti come la forza e il coraggio – che ogni genitore che si rispetti vorrebbe associare al proprio figlio maschio. O no?
Sempre nello stesso periodo, nel 1918, il Ladies Home Journal così consigliava infatti le sue lettrici:
Sul soggetto le opinioni sono diverse e contrastanti, ma la consuetudine vuole che si usi il rosa per i bambini e il blu per le bambine. Il rosa, infatti, è un colore forte e deciso, quindi più adatto ai bambini, mentre il blu, così fine e delicato, è più grazioso su una bambina.
Il rovesciamento di questa convenzione, o consuetudine che dir si voglia, ha avuto luogo negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, presumibilmente accompagnando il boom economico dei decenni successivi. E da lì, si è espansa progressivamente in tutto il mondo.
Gli oggetti che affollano le immagini scattate dall’artista rivelano stereotipi che vorremmo rifiutare, ma ai quali non siamo – evidentemente – in grado di sfuggire, e che, come abbiamo già avuto modo di discutere in un post precedente, evidenziano l’esistenza apparentemente ineluttabile di una netta e ben definita linea di confine tra i due generi che non può non influenzare il modo in cui i bambini rappresentano se stessi e il proprio gruppo di appartenenza.
Non intendo addentrarmi oltre nella questione del genere, o come piace dire oggi il gender; però mi sembra che, quale possa essere la nostra posizione al proposito, queste immagini abbiano una forza incredibile che non può non fare riflettere.
Personalmente, le trovo al limite dello scioccante, perché raccontano per iperboli (o forse neanche tanto…) una condizione talmente comune e abituale da passare spesso inosservata: gli eccessi a cui possono condurre gli stereotipi del colore. Mentre il primo passo per sconfiggere stereotipi e pregiudizi consiste proprio nell’individuarli.
Grazie al lavoro di Jeong Mee Yong (qui la sua pagina su Artsy) mi sono accorta che, quando mi trovo a passare davanti alle vetrine di negozi di giocattoli o addirittura agli scaffali dei reparti “infanzia” delle librerie, i colori mi rivelano un vero e proprio mondo, e si tratta di un mondo che con i bambini, la loro individualità e la loro identità ha ben poco a che fare. Pur tuttavia, volenti o nolenti, questo mondo esiste ed è ben radicato anche in quelli, fra noi, più critici e outsider. Meglio non dimenticarsene mai.