Ricordo bene la prima volta che ho visitato il museo Vincent Van Gogh di Amsterdam: era l’estate del 1995 ed era il mio primo InterRail – nonché l’ultimo, anche se allora non potevo saperlo e pensavo che non avrei mai viaggiato altro che in treno, preferibilmente di notte per risparmiare. Probabilmente all’epoca non sapevo nemmeno dell’esistenza della sindrome di Stendhal, però sono andata molto vicina allo stordimento quando finalmente uscii a riveder le stelle dopo quattro ore trascorse passando da un quadro di Van Gogh al successivo, con tutta la lentezza consentita dalle onnipresenti code davanti alle tele.
Quel che però non ero l’unica a non sapere, e che solo negli ultimi anni è stato dimostrato, è che i quadri che vediamo oggi sono molto diversi da quelli originariamente dipinti dall’artista olandese. I gialli si sono scuriti o schiariti e molti rossi sono del tutto scomparsi. Eppure la documentazione in nostro possesso, e in particolare le lettere al fratello Theo in cui erano meticolosamente dettagliati gli ordini e i fornitori a cui rivolgersi, dimostrano che Van Gogh dava molto peso alla scelta dei colori, analizzando la qualità e le proprietà dei pigmenti con grande cura e valutandone rischi e benefici; il colore aveva per la sua arte un ruolo fondante. Ha forse commesso degli errori nella scelta di uno strumento espressivo per lui così importante?
Come racconta Philip Ball nel suo splendido e intramontabile Colore. Una biografia, sul finire del XIX secolo si stava passando dai colori artigianali tradizionali a quelli fabbricati industrialmente; nonostante l’artista fosse consapevole che alcuni colori col tempo sarebbero stati meno vibranti – e cercasse di usarli con maggiore intensità – ogni tentativo è stato inutile. Alla chimica, semplicemente, non ci si può opporre.
Le formulazioni dei pigmenti derivavano tradizionalmente da fonti naturali; le lacche sintetiche che si iniziarono a produrre nella seconda metà dell’ottocento espansero enormemente la gamma di tonalità disponibili, ma molte si sono dimostrate essere troppo sensibili all’esposizione alla luce solare.
Si sono dedicati alla caccia al colore scomparso anche gli italiani: grazie anche all’intervento del Politecnico di Milano, recentemente (settembre 2015) è stato evidenziato che la celebre Camera di Vincent ad Arles, nelle intenzioni del suo autore, aveva le pareti viola, ben diverse dal blu che oggi possiamo ammirare ad Amsterdam.
Il “caso” di Van Gogh e i colori che cambiano è oggetto di indagine scientifica da diversi anni. Da tempo, gli esperti avevano individuato che il pigmento sintentico chiamato rosso di eosina, o lacca geranio, praticamente onnipresente sulla tavolozza dell’artista tra il 1888 e la metà del 1890, nell’arco di un secolo è virato al rosa pallido, se non addirittura al bianco, trasformando scene primaverili in paesaggi invernali. Ma perché? Qualche mese fa, è stato identificato “l’anello chimico mancante” necessario per spiegare le catene di reazioni che portano alla degradazione. Il minio, detto anche piombo rosso (Pb3O4), interagisce con la luce e l’aria e i prodotti restano catturati al di sotto della superficie pittorica; un po’ come se ogni granello di minio, col tempo, venisse ricoperto di sostanze degradate che formano un guscio biancastro. Il vero colpevole, il prodotto dell’interazione del minio con la luce, è un minerale dal nome giustamente sinistro, plumbonacrite, che a sua volta reagisce con l’anidride carbonica a dare idrocerussite e cerussite.
Recentemente, si è scoperto che una sorte analoga è toccata anche al giallo cadmio: il composto chimico utilizzato per realizzarlo (il solfuro di cadmio), si ossida quando esposto alla luce, diventando solfato di cadmio, incolore, oppure reagisce con altri elementi e si trasforma in beige. Questo destino unisce opere di Van Gogh a quelle di artisti suoi contemporanei come, ad esempio, Paul Gauguin o Henri Matisse e la sua tela La gioia di vivere, ricca di colori squillanti che però, a quanto pare, oggi non fanno più giustizia alle intenzioni dell’autore.
Come ha commentato il chimico Koen Janssens, autore della ricerca che ha portato all’identificazione della plumbonacrite:
Mi colpisce il fatto che in quadri di artisti diversi, di diversa provenienza geografica, conservati per oltre un secolo in condizioni anch’esse diverse, si mettano in atto trasformazioni chimiche molto, molto simili. Questo dovrebbe consentirci di prevedere quanto potrebbe succedere a questi capolavori nel corso dei prossimi decenni.
Ed eventualmente aiutare i musei a migliorare le proprie tecniche di conservazione perché questi processi, per ora apparentemente irreversibili, smettano di alterare senza sosta alcune delle opere più belle prodotte dall’ingegno umano. Sperando che presto altri ricercatori trovino il modo, almeno in questo caso, di sfuggire all’inesorabilità delle reazioni chimiche, perché Van Gogh e i colori scelti da lui e dagli artisti suoi contemporanei possano restare fedeli a se stessi.